Ognuno nella vita può fare o ciò che vuole o ciò che gli ordinano.
Poche volte siamo lasciati liberi di fare ciò che ci fa stare bene veramente.
Io, quando posso, scrivo.
O’ terramote!
Sono in cucina che passeggio avanti e indietro strisciando il braccio e la mano sul lungo piano della cucina. Un po’ non penso a nulla, un po’ mi sale come un rigurgito il rimorso di non aver studiato geometria. E’ la prima volta nella mia vita, anche se ho solo 10 anni e mezzo. Non ci voglio pensare, ma poi ci penso continuamente. Mi convinco che c’è ancora tempo per studiare nonostante siano già le 19.00 passate della solita domenica intrisa di noia, con il cielo dello stesso colore plumbeo dei miei pensieri.
In casa c’è ancora l’odore del ragù. Quello che prepara mia madre è super speciale! Bocconcini di carni diverse e qualche tracchiolella1 per insaporire. Lo fa cuocere per almeno due ore e mezza, non come una volta che doveva stare a bollire lentissimamente per otto ore! La carne ora è diversa, più tenera, dice mia madre.
Ed è strano perché non ho nemmeno fame. In genere dopo le sette ho fame, sebbene a pranzo si mangi tardi la domenica, dopo le due del pomeriggio e si mangia molto più che in settimana: il primo abbondante, un secondo con le verdure, la frutta secca e un dolce.
E’ una fame leggera che in genere soddisfo con una tazza di latte caldo, caffé e biscotti. Ma non ho voglia nemmeno di quello mentre torno a pensare alle regole di geometria, quattro stupide regole che oggi 23 novembre 1980, io, alunna tra le prime della classe VB elementare della Dante Alighieri di Napoli, proprio respingo come se dovessi ingoiare una medicina amara.
In cucina sono da sola. Mio fratello minore è a casa di un amichetto nella scala affianco. Lui è fortunato. Ha trovato un compagno della sua età, anche se non vanno sempre d’accordo, però almeno ha qualcuno con cui giocare. Io invece sono sempre da sola, io e le storie che mi invento quando il silenzio la fa da padrone.
Mio padre è in salotto a seguire in tv ”90esimo” minuto con i risultati e i commenti alle partite di calcio. Mia madre starà di certo sistemando qualcosa. Mia nonna, nella sua camera, starà forse sonnecchiando.
Prendo l’accendigas e comincio ad osservarlo. Lo alzo in aria, lo uso come un coltello che taglia qualcosa di invisibile. Lo accendo e lo rispengo più volte anche se so che non si fa perché ”si consuma il gas” dice sempre mio padre, ma ora non c’è e io mi sto annoiando da morire.
Guardo l’orologio sul muro, sono le 19:34. In quel momento sento muoversi il pavimento.
”Ma che?”
In un primo momento non penso. Mi osservo i piedi. Sono piedi piccoli in pantofole di lana rossa. Sono fermi eppure si muovono come se qualcosa o qualcuno li stesse spingendo verso l’alto. Un po’ come quando da piccola saltavo con mio fratello sul materasso in camera dei nostri genitori. Le molle del materasso ci spingevano in alto e la prospettiva della stanza cambiava. Ma adesso in torno a me nulla si muove, io stessa non mi muovo. Ma llora cosa è che si muove? E’ una sensazione strana, troppo strana che mi lascia spiazzata, muta e immobile con l’accendigas ancora in mano.
”Deve essere la signora sotto che batte con la scopa il soffitto!” Sto cercando di darmi una risposta. Così prende corpo l’immagine della vicina al piano di sotto, una signora molto signorile, di una età per me indefinibile, con i capelli vaporosi come una nuvola arancione e i fianchi generosi che bussa con la punta della scopa.
”Ma perchè dovrebbe farlo?” Suggerisce una voce nella mia testolina. ”Non lo ha mai fatto, non è da lei e poi i soffitti sono così alti, la scopa non ci arriverebbe!” Il pensiero scoppia con un puff come nei cartoni animati quando vedo mia madre sopraggiungere di corsa, braccia all’aria, mentre urla qualcosa che non capisco. Io proprio non riesco a decifrare le sue parole. Forse mi sta invitando ad andare in fretta nell’ingresso, ma io resto bloccata. Mia madre allora mi afferra per il polso e mi trascina nell’ingresso dove intravedo mio padre che ci accoglie in un abbraccio.
”Sotto l’arco è meglio, l’arco non crolla!” sento dire da mia madre, ma non capisco cosa dovrebbe crollare. Così restiamo fermi tutti e tre sotto quell’arco abbracciati. E’ tutto così lento e così rapido: la mia casa comincia ad ondeggiare come una nave in burrasca. Si sposta a destra e a sinistra. La porta del bagno di fronte a noi opera qualcosa di magico: si apre e si chiude da sola, a ripetizione. Si chiude sbattendo forte e si riapre come se un’entità invisibile ne abbassasse la maniglia.
Sento i muri schicchiolare: cric, crac e la paura sale, sale, sale, dai piedi alla testa, mentre i miei genitori iniziano a recitare il Padre Nostro. Non lo fanno per opportunismo, loro sono davvero credenti. Nessuno dei due ha mai saltato una S. Messa, nemmeno se malati, nemmeno in tempo di guerra. Mia madre prega sempre alla sera, mio padre ci obbliga a fare il segno della croce prima di mangiare per ringraziare il buon Dio del cibo a tavola. Eppure le loro preghiere non mi stanno dando conforto perché io ancora non ho capito se stiamo per morire o se quella cosa che sta accadendo finirà a breve.
Mi volto indietro nel momento in cui sento aprirsi la porta della stanza di mia nonna. La intravedo solo per un attimo, seduta di spalle che agita le braccia come quando fanno la ola i tifosi allo stadio, e io so che non è lei, ma che è quella cosa che la sta facendo ondeggiare. Forse sta pregando anche lei. Poi la porta si chiude.
Decido di imitare i miei genitori. Mi infilo nelle loro preghiere senza molta partecipazione sincera, è un Padre Nostro sommerso da un’unica preoccupazione: quando finisce?
E come se qualcuno mi avesse ascoltato, dop poco le oscillazioni accorciano l’ampiezza mentre lo scricchiolare delle pareti svanisce in un silenzio che riattiva il respiro normale. I miei genitori mi abbracciano. ”Siamo salvi!” Penso io, ma non è finita. Innanzitutto occorre andare a recuperare mio fratello. Non aspetto che me lo dicano, scendo per le scale i tre piani, seguendo la raccomandazione di mio madre di stare attaccata alla parete. Vedo mio fratello nell’androne dabbasso e lo riaccompagno su a casa. Non mi sembra per niente spaventato, meglio così, anzi la sua tranquillità mi contagia. Mi racconta dove era al momento della scossa e io faccio lo stesso. Non sappiamo che quei pochi minuti ci resteranno impressi per tutta la vita.
Una volta entrati in casa vedo i miei che si preparano per uscire. Non capisco, sono le otto di sera passate e fuori è buio e freddo, dove andiamo? E poi mia nonna non ce la farà mai a scendere le scale.
I miei parlano in maniera agitata ma sommessa, non li capisco, ma intuisco che non sono d’accordo sul da farsi. A qual punto mio padre infila un giubbotto a mio fratello e si precipitano giù per le scale. Ora ho capito: mia madre non vuole lasciare la nonna da sola in casa. A quel punto la vicina di casa, una donna anziana ma ancora in forze, convince mia madre a lasciare la nonna momentaneamente da lei, si faranno compagnia e staranno bene.
Così io e mia madre ci rechiamo a piazza Carlo III, dove con mia sorpresa trovo una folla di persone e un gran vociare come se si fosse al mercato. Il cielo è stranamente rosso come se ci fosse stato un incendio non poco distante. Cerchiamo mio padre e mio fratello tra la gente, ma non è facile, sono davvero in tanti e mentre serpeggiamo vedo passare un uomo sulla quarantina in ciabatte e accappatoio blu. Mi porto la mano alla bocca per nascondere un sorriso. Chiedo a mia madre: ”Ma non ha freddo?” e glielo indico. ”Non ha avrà avuto tempo di vestirsi.” mi risponde. Poi sorridiamo insieme divertite. Provo a immaginare la scena di questo signore che mentre si fa la doccia sente la terra tremargli sotto i piedi, chiude l’acqua, apre la tendina e scappa per strada in ciabatte e accappatoio! Superdivertente!
La piazza è sempre più gremita, i lampioni illuminano gli affluenti di strade che vi convergono: via Foria, la Doganella, il Corso Garibaldi. Quei giardini sempre sporchi e deserti, ora sono un punto di incontro ideale per perfetti sconosciuti che ”alla napoletana” diventano conoscenti dopo aver sfiorato insieme una tragedia.
«Perché siamo qui?» chiedo a mia madre.
«Potrebbe verificarsi un’altra scossa.»
”Quindi non è finita, mannaggia!”
Sento alcune persone parlare del Reclusorio. Esso è il maestoso edificio che domina la piazza, chiamato anche l’Albergo dei poveri. Dicono che sia crollato. Io so di per certo che mio padre ha lì sotto la nostra macchina, la nostra 500 in un parcheggio privato.
«Mamma la macchina di babbo!» le urlo tirandole la gonna.
«No, no, è crollato dall’altra parte, a sinistra, il garage è a destra, tutto apposto!» mi rassicura indicandomi l’ala che è venuta giù.
Cerco di vedere allora il punto del crollo tra le sagome di persone che non riescono a stare ferme e sono tutte più alte di me. L’edificio sembra intatto, eppure attraverso alcune finestre riesco a vedere pezzi di cielo. Domani si vedrà meglio, penso. Intanto sopraggiunge mio padre con mio fratello che mi sorride e urla imitando i passanti: ”O’ terramote!” Mio fratello ha sette anni e sorride sempre, scherza per qualsiasi cosa, forse perché non capisce, è piccolo. Sono io quella seria dei due, ma questa volta rido anche io e ripeto: ”O’ terramote!”
Devo precisare che sia io sia lui abbiamo ricevuto un’educazione piuttosto rigida. In essa il parlare in dialetto non è contemplato. Ecco perché mio fratello trova molto buffe alcune parole e si diverte a ripeterle, talvolta cambiandone qualche lettera, non so se lo fa di proposito o perché si limita a ripetere quello che crede di aver sentito. Per noi è come una liberazione questa lingua, che è la nostra lingua, ci piace un sacco e fa sempre ridere.
Intanto i miei riprendono a discutere animatamente. Alla fine ci comunicano che dormiremo in macchina. Io e mio fratello ci guardiamo. ”Io faccio le puzzette!” Mi dice in un orecchio. Io sgrano gli occhi e puntando l’indice sulle labbra gli suggerisco di tacere.
Dormiremo nella nostra macchina, nella 500? E come si fa a dormire in macchina? A stento ci entriamo seduti! La decisione comunque è presa, mio padre si avvia al garage. Il bello è che ci metteremo anche la nonna, di certo non possiamo lasciarla in casa da sola.
«E come scende le scale?» chiedo io. «Tu non ti preoccupare» mi rassicura mia madre che lo so è più arrabbiata per mio padre che per il terremoto.
Dopo mi sarà detto che con l’aiuto dei vicini l’hanno messa su una sedia e portata giù per i tre piani, proprio come una regina d’altri tempi, solo che mia nonna peserà di certo come due regine!
In macchina in cinque ci entriamo per forza. La nonna e babbo davanti, io dietro con mio fratello in braccio a mia madre. Ma come faremo tutta la notte? Non lo so. Mio padre ha la faccia ‘nquartata’ che in lingua napoletana vuol dire molto, molto arrabbiata.
Sul tardi sento la stanchezza sopraggiungere. Non credevo fosse possibile dormire lì in quel contesto, eppure gli occhi cominciano a chiudersi e ad aprirsi più volte, sempre più lentamente, le palpebre pesano come macigni mentre un ultimo pensiero affiora: ”Domani niente interrogazione di geometria!” Mi sento sollevata, e con questo senso di liberazione mi addormento profondamente in una delle notti più tragiche per la mia città.
1Costoletta di maiale
Emilia Capasso